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31 gennaio 1943: la resa di Paulus a Stalingrado

di Marco Innocenti

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30 gennaio 2010
Il Feldmaresciallo Friedrich Paulus (primo a destra) interrogato dal Maresciallo dell'Armata Rossa Nikolai N. Voronoff (primo a sinistra) dopo la resa di Stalingrado (Ap/Lapresse)

Il 31 gennaio 1943, dopo 163 giorni di lotta, Friedrich Paulus si arrende a Stalingrado. La sua VI armata è chiusa in una sacca, perduta. Il maresciallo tedesco si è rifugiato nei sotterranei di un grande magazzino, in una buia cantina riscaldata da una stufa d'argilla. Fuori, con la temperatura che batte a 30 sotto zero, vegetano 90mila uomini, i resti di un'armata che due mesi prima ne aveva 290mila. I russi sono alla porta. "Senza tante storie", come scriverà nelle sue memorie, Paulus decide di farla finita e si avvia all'uscita, scheletrico, curvo, umiliato. Quasi indifferente, consegna la pistola. Lo aspetta anche il fotografo: è un momento che va immortalato.

Poco prima, con l'ultimo aereo dalla città assediata, erano partite le lettere d'addio dei suoi soldati. Una diceva: "Quando Stalingrado cadrà, tu lo sentirai e lo leggerai, e allora saprai che io non ritornerò. Ti prego, non dimenticarmi troppo presto". In un'altra la rabbia scriveva: "Se proprio ci deve essere un Dio, è solo nei libri di salmi e nelle preghiere, nelle pie parole dei preti e dei pastori, nel suono delle campane e nel profumo dell'incenso. Ma a Stalingrado, no". Una terza concludeva come un epitaffio: "Mano all'elmetto, papà, il tenente prende congedo da te".

La prigionia
Gli ultimi uomini della sacca capitolano il 2 febbraio. Con il maresciallo si avvia verso la prigionia una fila senza fine di straccioni e di malati. La Siberia ne restituirà solo cinquemila. Oggi Stalingrado si chiama Volgograd e la collinetta di Mamaev, a quota 102, è meta nella breve estate russa di turisti curiosi e di scolaresche rumorose. Era un intrico di nidi di mitragliatrici e di postazioni di mortai. Si combattè corpo a corpo, metro per metro. La sua terra era nera anche quando nevicava e ci vollero anni prima che l'erba tornasse a spuntare. Lì, dove oggi si staglia un grande sacrario, Hitler perse la guerra e cambiò il nostro destino. Nella fantasia popolare Stalingrado sarebbe rimasta la più grande sconfitta della storia.

Perché l'attacco
Nell'estate del 1942, in piena guerra Urss-Germania, Stalingrado è una grande città portuale sul Volga, nodo di comunicazioni ferroviarie e fluviali e centro dell'industria pesante, fondamentale per l'economia sovietica. Per i tedeschi è una punta di valenza strategica per la conquista dei pozzi di petrolio del Caucaso. L'offensiva tedesca, affidata alla VI armata di Paulus (quasi 300mila uomini), inizia nell'agosto del 1942. A metà ottobre, dopo pesanti martellamenti aerei e di artiglieria, la Wehrmacht sembra farcela. L'attacco in profondità dell'11 ha messo i difensori alle corde. La battaglia è violenta e assume un carattere simbolico, quasi irrazionale. Non mette più di fronte due logiche militari ma getta l'uno contro l'altro due fanatismi scatenati. Hitler si accanisce, la resistenza russa è magnifica. I granatieri tedeschi sanno che l'ultima pietra di Stalingrado sarà segnata dal loro sangue.

Il 9 novembre Hitler dichiara: "Ho voluto raggiungere il Volga nella città stessa che porta il nome di Stalin". La VI armata controlla nove decimi della città. Frenesia alla cancelleria di Berlino, cauto ottimismo al quartier generale di Paulus. Il generale "plebeo", amato da Hitler, neutrale in politica, sbiadito nella personalità, incapace di disubbidire, sferra l'11 l'offensiva finale. Si combatte tra le macerie, casa per casa, stanza per stanza. I difensori russi sono agli ultimi fuochi ma la fortuna, improvvisamente, gira. Il 19 scatta la controffensiva di Stalin sul Don. Le armate rumene cedono di schianto. Il 22 la VI armata è circondata. Unica soluzione per la sua sopravvivenza è uno sfondamento per rompere la sacca. Paulus chiede ordini. Il 23 da Berlino Hitler urla: "Non lascerò mai il Volga". La VI armata è condannata. La fortezza Stalingrado sarà la sua tomba.

Il crollo
Il rifornimento aereo fallisce, il feldmaresciallo Erich von Manstein, il miglior stratega della Wehrmacht, organizza senza fortuna in dicembre un tentativo di sbloccare la sacca che prevederebbe una sortita di Paulus (che Hitler gli nega). Sul Don l'Armata rossa attacca di nuovo travolgendo le truppe italiane. Il fronte crolla. Nella sacca, che i tedeschi chiamano kessel, il "calderone", il morale è a pezzi. La temperatura è insopportabile, si muore di ferite, di malattie, di fame. E' un'agonia. Viveri e munizioni sono quasi terminati. Il 24 gennaio 1943 Paulus chiede a Hitler l'autorizzazione a capitolare. Il 30 il Fuehrer lo nomina feldmaresciallo e dice: "Mai un maresciallo tedesco si è arreso". Da lui si attende il suicidio. Paulus glielo nega. Il 31 la lotta è finita. Sulla tragedia di Stalingrado cala il sipario.

30 gennaio 2010
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